Tratto da Francesco Volpe “I mercati settimanali nella vita economica, civile e
religiosa del Cilento nell'età moderna”
(…) Il prodotto più venduto sul mercato era il grano. Non c'era sabato che non si
vendesse, grano, tanto che ci sarà «ammirazione e dolore» in tutti, quando nel novembre
del 1763 questo cereale non sarà posto in vendita, «giachè niuno, vecchio o giovane,
si ricordava né aveva inteso dire dai suoi maggiori che fusse ancora mancato il
grano nel Mercato del Cilento, di maniera che, mancato il grano, non vi pareva niente
e par che languiva ». Il cronista, tale Fabio Donnabella di Valle, continua più
avanti: «( ... ) era una pietà passare per il Mercato e non vedere come al solito
vendersi farina». Il grano tornò in vendita dopo circa sei mesi, il sabato 26 maggio
1764 (F. Volpe, La carestia del 1764 nel Cilento nella cronaca di un contemporaneo).
Naturalmente si trovavano in vendita più varietà di grano: la più costosa era la
«saravolla», la più scadente quella del «grano comune seu mischia» o «mesca», mentre
di qualità media erano la «riscola» e il «vezzoso». La produzione locale era scarsa,
specie nei «paesi che son nell'alture del monte della Stella (che) a fornir non
giungono colle loro fatighe le proprie bisogne» (Ventimiglia). La penuria di cereali
si avvertiva in tutti i centri di pendío che mancavano di territorio aperto e pianeggiante.
Significative le risposte date dagli indigeni quando si chiedeva di denunciare la
produzione locale. Ecco quella di Ortodonico e Cosentini del 25 gennaio 1715: «E'
stato fatto buttare banno per li luoghi soliti e consueti di detta Terra, acciò
ogn'uno havesse rivelato che grano, fave, orgio, granodinio havessero per loro potere.
Si è risposto ad una voce che detti cittadini e habetanti in essa non hanno tanto
robba di detto grano, orgio, fave, granodinio et altro che fusse bastante alli loro
alimenti, ma la maggior parte di detta terra seu cittadini d'essa si portano nel
Mercato del Cilento e luoghi di montagna a comprare detto grano. fave, granodinio
e altro per lo loro sostentamento». Alla scarsa produzione delle fasce collinari
- montane doveva sopperire quella dei territori più pianeggianti. La compensazione
è colta dal Ventimiglia, quando descrive queste zone più feraci che rifornivano
il Mercato. «( ... ) le spaziose pianure che di qua sono e di là in gran copia e
strabocchevole grano ed altre biade producono. Tali sono le rive lungo le Ische
dell'Alento e piú di tutte quelle dappresso Acquavella e Casalicchio. Feraci sono
eziandio le pianure del Castello, e sovra ogni altra quella dell'Alano (località
presso Castellabate); simile fertilità è nei piani di Agropoli, ma piú nelle Ische
di Eredita che sino al Solofone distendonsi. Se un po' allargar ci volessimo ci
rimane a dire dell'ubertà delle pianure di Giungano e Capaccio, granaio non che
del Cilento ma della Provincia di Principato Citra e fuori.(…)» (Ventimiglia). Zone,
queste ricche di cereali, distanti dal Mercato, eppure da esso dipendenti, sia perché
su quella piazza si portavano settimanalmente gli avventori, sia perché la «voce»
che di là usciva veniva poi adottata e rispettata nei più remoti paesi della regione.
Si dirà ad Agropoli nel 1813 che da loro « non vi è stato mai costume di formarsi
voce di prezzi, si è vissuto sempre sulla voce del Mercato del Cilento ». Oltre
ai cereali (grano, orzo, granoturco, miglio, avena) e alle leguminose (fagioli,
fave, ceci, doliche, cicerchie, vecce), trai prodotti più venduti sul Mercato c'erano
il vino, l'olio e la seta. Di vino il Cilento ha sempre abbondato, dalle piane di
Agropoli e di Castellabate alle colline di Lustra e Acquavella. Il Ventimiglia elogia
le vernacce che allora si producevano tra la punta Licosa, Acciaroli «ed altri somiglievoli
luoghi», ma più «ameno» descrive «quello che nasce nelle apriche valli tra Vatolla
e Camella che non la cede al greco per cui ne va il Vesuvio fastoso» (Ventimiglia),
ma tali vini prelibati non giungevano certo sul Mercato bensí piuttosto sulle tavole
dei benedettini di Cava e dei vari signori feudatari. Superiore comunque al commercio
interno di vino doveva essere quello volto verso l'esterno. Sulla piazza di Salerno
«concorrenti più temibili erano i vini del Cilento, che per la bontà e il prezzo
erano bene accetti ai consumatori, i quali facilmente potevano farne acquisto, poiché
piccole imbarcazioni da quei paesi costieri, quasi ogni giorno raggiungevano il
nostro porto provviste di un buon carico di vino» (A. Sinno). Ancora più abbondante
del vino, secondo il Ventimiglia, è la produzione dell'olio, fra l'altro «di pregio
per l'eccellente qualità». Le zone piú ricche erano anzitutto proprio quelle adiacenti
al Mercato, cioè le alture di Laureana, Matonti, Vatolla, Camella, Perdifumo, Capograssi
e paesi vicini, nonché le colline di Celso, Galdo, Acquavella, S. Giovanni e paesetti
contigui. Tra le varietà di olive, il Ventimiglia ne elogia in particolare una «veramente
straordinaria, fatta a grappoli a guisa d'uva, parte cogli acini grossissimi ed
altri che a poco a poco diminuendosi sono finalmente quanto una lenticchia coll'osso
minutissima». Tale varietà prosperava nella Pagliara, «delizioso luogo tra Vatolla
e Camella», di proprietàdella stessa famiglia Ventimiglia. La vendita della seta
rispecchiava un'industria praticata nel Cilento «ab immemorabli». Nel capitolo XII
delle «addizioni» agli statuti veniva prescritto che si dovessero tenere sul Mercato
apposite bilance per le sete, la cui coltura si praticava nei vicini centri di Vatolla,
Laureana, Matonti, Camella, Perdifumo. In discreta quantità veniva prodotta anche
la bambagia, specie nelle marine di Castellabate e di Agnone. Comparivano pure sul
Mercato prodotti di pelle dalle vicine Valle a Sessa, le quali avevano appunto la
prerogativa di «conciar pelli assai consimili alle veneziane, come anche cuoi che
secondo le ultime esperienze migliori riescono delle più famose Napoletane ad uso
d'Irlanda». Queste piccole industrie sollevavano alquanto il tono generale dei paesi
che le praticavano; il Ventimiglia vede «gran ricchezze ( ... ) in picciol tempo
radunate» a Valle ed a Sessa «per la lucrevole arte» della concia. Riguardo agli
animali che usualmente venivano portati sul Mercato, prevalevano soprattutto il
pollame ed i maiali. Le popolazioni si cibavano di carne di capra, di pecora, di
caprone, di castrato e, più raramente, di bue. La carne di porco invece era molto
usata per confezionare salumi, che, assieme coi fichi secchi, costituivano uno dei
principali prodotti caratteristici locali. Lo scarso valore della frutta fresca,
abbondante dappertutto, non ne faceva oggetto di commercio, sicché poca ne compariva
in vendita. «Venustà accresce e ricchezza alla contrada di cui si ragiona la quantità
delle frutta. Diamo il primo luogo alle fichi. (...) oltre quelle che ottato diconsi,
il cui uso egli è il seccarle, ven sono delle altre molte che la natura par che
abbia per mangiar verdi somministrate. A tutte precedono le troiane, che tutt'altro
son da quelle di Napoli ( ... ). Ciò che si è detto della qualità ed eccellenza
delle fichi dirsi può delle uve. Tralasciando quelle che ad effusionem vagliono,
ad escam ve ne sono tante; van però sopra tutte famose le uve dette Zibibi, di cui
gran copia ne va in ciascun anno nella vicina Partenope. ( ... ) V'è oltre il zibibo
nella Licosa l'uva damascina. ( ... ) Vi sono eziandio nel Cilento tutte quelle
altre uve che allignano in altri paesi. ( ... ) Ver le parti d'Occidente la regione
produce copia indicibile di pera e di qualità eccellentissima. Tra le quali sono
le piú famose le spadoni e le spina, le bergamotte e le althan, come attestar può
il delicato palato della bella Napoli che ne viene mai sempre provveduta. Ver quelle
d'Oriente grande abbondanza v'è di castagne, ( ... ) vi sono nel Cilento ciliegia,
( ... ) prugne,( ... ) amendole, fra l'altro nell'Alano, varie sorte d'agrumi, ove
la placidezza del clima il soffre, fragole e tutt'altro che ha la natura dato in
sollievo ai mortali» (Ventimiglia).(…)